Piacere, io sono Mario! Ed ho bisogno di aiuto…
Queste le prime parole rivolte a due nostri operatori all’ingresso di un centro socio-educativo per bambini. Fermo davanti alla porta un uomo sulla cinquantina, con un sorriso aperto e cordiale.
Voi potete aiutarmi? Mi serve un lavoro, vi spiego brevemente…
Allargando sempre più il suo sorriso, Mario divenne un fiume in piena e cominciò a parlare.
Una storia di quelle sempre più comuni, a volte chiamate “di ordinaria povertà”, come se la povertà potesse davvero essere accettata come parte integrante della nostra normalità.
Gli fu spiegato che quella era una struttura per bambini e vennero subito contattati i colleghi che si prendono cura degli adulti in difficoltà, fissando per lui un primo appuntamento per un colloquio conoscitivo.
Oggi è passato un anno, e dopo un percorso di orientamento e formazione specifica Mario ha di nuovo un lavoro.
Quando l’ho chiamato chiedendogli di condividere la sua storia, ha accettato immediatamente di incontrarmi, spiegandomi che è importante che certe storie si conoscano, ed è importante mostrare come da certe situazioni sia possibile uscire. Bisogna solo trovare la forza di chiedere aiuto.
Mario B, 53 anni, due lauree in tasca, una in filosofia ed una in economia e commercio, un passato in diverse aziende, prima da interno e poi da consulente.
Un superconsulente, precisa lui. La mia agenda era sempre piena, sgomitavano tutti per avere i miei servizi.
Una bella famiglia, una bella vita.
E poi la separazione, il divorzio, l’allontanamento da casa, ed un brutto esaurimento nervoso per chiudere il tutto.
Tornai a casa dei miei genitori, che non riuscivano a capire cosa fosse accaduto, continuavano a ripetermi che insieme a L. sembravamo così felici. Loro erano anziani, non riuscivano a capire certe dinamiche.
Mi svegliavo di notte senza riuscire più a dormire, ed i giorni trascorrevano tutti uguali. Diradai i miei impegni da consulente fino a smettere completamente di lavorare, non avevo più voglia di fare niente se non di compiangermi. Avevo 45 anni e mi sembrava che il ciclo della mia vita fosse ormai chiuso.
Sei mesi dopo il mio ritorno a casa si ammalò mio padre, fu una malattia veloce che lo portò via in un paio di mesi.
Cominciai a bere. Non so ancora bene quale fu la spinta che mi avvicinò alla bottiglia, forse il dolore per la perdita di mio padre, forse il desiderio di fermare i ricordi della mia vita precedente che affioravano nella mia mente.
Ricordo solo che per i tre anni successivi, fino alla morte di mia madre, non feci altro che bere.
Con il passare del tempo in Mario crebbe la consapevolezza di un totale fallimento della propria condizione di uomo e di lavoratore.
Ero arrivato alla soglia dei 50 anni e non avevo nulla: non una famiglia, non un lavoro, solo la consapevolezza del buco nero in cui ero caduto e della mancanza di forze per cambiare la mia situazione, tanto da vergognarmi di dire che ero stato un manager ed un consulente aziendale. Tutto mi appariva lontano, quasi fosse qualcosa che non avevo mai vissuto ma solo sentito raccontare.
Alla morte di sua madre, Mario trovò la forza di abbandonare la bottiglia.
Si rivolse ad un gruppo di specialisti e smise di bere, mentre con i pochi soldi lasciati dai genitori affittò un’appartamento e si mantenne per circa un anno, senza avere però la forza necessaria per mettersi alla ricerca di un impiego.
Le giornate erano tutte uguali: restavo a casa a guardare la televisione oppure uscivo a passeggiare, ma non era quello che volevo. Avrei voluto tornare a lavorare, darmi da fare. Avrei voluto tornare a vivere.
Ma non ne avevo la forza.
Quando i soldi finirono Mario lasciò casa con dignità, con un paio di borse di vestiti.
Cominciai a chiedere ospitalità ai pochi amici che mi erano rimasti, ai quali mentii circa i miei progetti futuri. Raccontai di essere in attesa di una chiamata per un contratto di lavoro già firmato, mi vergognavo troppo della mia condizione.
Uno dopo l’altro chiesi ospitalità a tutti, ma poi gli amici finirono.
E conobbi la strada.
Ricordo la prima notte in Stazione, l’incontro con i volontari, la tazza di tè caldo presa dalle loro mani. In quel momento capii cosa ero diventato.
Mario decise di viaggiare, non voleva essere stanziale, e non voleva che le persone che conosceva lo vedessero in quello stato.
E poi viaggiare mi ricordava quando mi spostavo per lavoro, da una città all’altra per le mie consulenze.
Mi muovevo di continuo, a volte mi accadeva di incontrare persone a cui raccontavo la mia storia e che mi prendevano a cuore, e mi capitava di fermarmi anche qualche mese nella stessa città.
Sono stato a Bologna, Milano, Roma, Napoli, ma anche in Francia ed in Spagna, e poi un paio d’anni al Sud Italia, in piccoli centri sul mare. Ho sempre amato il mare, fin da quando sono piccolo sogno di vivere in una città costiera.
Già da diversi mesi la mia condizione era diventata per me insopportabile.
Avevo deciso di farla finita, di mettermi nuovamente in gioco e di andarmi a riprendere ciò che era mio di diritto. Un nuovo lavoro ed una nuova vita.
Trascorsi l’ultima estate in Calabria, come una meritata vacanza dopo un anno di duro lavoro: avevo deciso che alla fine della stagione sarei andato a Genova, dove avevo un vecchio amico. Mi feci coraggio e lo chiamai: gli raccontai per filo e per segno ciò che mi era successo, lui non mi giudicò ne’ espresse alcuna resistenza alla mia richiesta di trasferirmi da lui per qualche tempo. A fine settembre scendevo dal treno a Genova Piazza Principe.
A Genova mi procurai una lista di organizzazioni che si occupavano del reinserimento di persone come me, mi sentivo forte e desideroso di cambiare. Trovai un indirizzo che era a quattro passi da casa del mio ospite, lo presi come un segno del destino.
Mi piazzai davanti al portone aspettando che arrivasse qualcuno, e qualcuno arrivò davvero.
Il resto della storia la conosci già…fui indirizzato ad alcuni tuoi colleghi che mi hanno preso in carico e mi hanno sostenuto nella ricerca del lavoro e nel mio processo di rinascita.
Il messaggio che posso portare? Uno solo: per quanto in basso si possa pensare di essere arrivati, per quanto la disperazione possa impedire di vedere anche il minimo barlume di speranza, non abbandonare mai la speranza e non rinunciare a chiedere aiuto. Le cose se le si desidera davvero accadono e là fuori è pieno di persone disponibili a darti una mano.
Non pubblicherai intera la foto che mi ha scattato, vero? Magari taglia il mio volto, così nessuno mi potrà riconoscere…