Spesso si sente parlare di welfare, declinato nei più svariati modi: welfare aziendale, welfare state, sistema di welfare, welfare community.
Ma che cos’è davvero il welfare? A cosa ci riferiamo quando parliamo dei doveri che uno stato ha nei confronti del welfare dei propri cittadini?
Forse la migliore definizione, seppur risalente a quasi sessant’anni fa, è ancora quella dello storico inglese Asa Briggs nel 1961:
Il welfare state è uno Stato in cui il potere organizzato è usato deliberatamente (attraverso la politica e l’amministrazione) allo scopo di modificare le forze del mercato in almeno tre direzioni:
primo, garantendo a individui e famiglie un reddito minimo indipendentemente dal valore di mercato della loro proprietà;
secondo,restringendo la misura dell’insicurezza mettendo individui e famiglie in condizione di fronteggiare certe «contingenze sociali» (per esempio, malattia, vecchiaia e disoccupazione) che porterebbero a crisi individuali e familiari;
terzo, assicurando ad ogni cittadino senza distinzione di classe o status i migliori standard disponibili in relazione a una gamma concordata di servizi sociali.
Per quanto riguarda la storia del welfare ed il suo affacciarsi nella società europea come argomento di discussione politico, dobbiamo andare alla fine del diciannovesimo secolo.
Era il 1879 quando l’economista tedesco Adolph Wagner teorizzò per primo il Wohlfahrtstaat (letteralmente stato di benessere) come dovere imprescindibile dello stato di garantire il benessere ai suoi cittadini.
Nel 1932 il Cancelliere tedesco Von Papen attaccò questa concezione di stato materno verso i suoi appartenenti, in quanto alcuni diritti sociali avrebbero indebolito le forze morali della popolazione germanica: la nazione tedesca era ormai profondamente cambiata, e solo l’anno dopo Adolph Hitler si fece attribuire pieni poteri.
Il termine inglese Welfare apparve nel 1941 ad opera dell’arcivescovo di York, William Temple, che volle differenziare con questo termine lo stato sociale britannico dal Warfare state tedesco.
L’anno successivo il rettore dell’Univeristy College di Oxford, sir William Beveridge, completò una Relazione sulla protezione sociale per il Governo britannico: il Rapporto Beveridge influenzò in maniera determinante il concetto stesso di welfare non solo per gli anglossassoni, ma per tutti i paesi europei, tanto da assumere quasi il valore di Carta Costituzionale del Welfare per il vecchio continente.
Concreta e diretta nelle sue argomentazioni, la relazione non si soffermava sull’analisi dei differenti settori dell’economia e della società angloasassone, ma spostava interamente l’attenzione sul concreto concetto del quotidiano vivere delle persone.
In quegli anni difficili (in piena Seconda Guerra Mondiale e con l’Europa schiacciata dalle dittature), il piano Beveridge apparve come una boccata d’aria pulita ed indicava un futuro di speranza: una volta liberati dai fascismi imperanti i popoli avrebbero potuto sperimentare la protezione sociale e la liberazione dal proprio stato di bisogno in quella che sulla carta appariva come una democrazia vera, attiva e partecipata.
Il Piano di Beveridge fu presentato a Winston Churchill il 20 novembre 1942: ai primi di gennaio del 1943 il progetto di Protezione sociale e di politica sociale, il Welfare State nel senso più stretto del termine, fu conosciuto e se ne iniziò l’applicazione.
L’idea di fondo era quella di combattere e sconfiggere i 5 elementi negativi della società contemporanea: povertà, malattia, ignoranza, squallore e disoccupazione.
Il piano partiva da tre premesse e principi necessari e fondamentali, le tre leve su cui il cambio della società sarebbe stato innestato: sussidi all’infanzia, estesi servizi sanitari e di riabilitazione, mantenimento degli impieghi.
Per farlo era stato teorizzato un articolato sistema per intervenire sul sostegno all’individuo tramite assegni familiari, sussidi di disoccupazione, malattia, infortuni, pensione di anzianità e invalidità.
Nel corso dei decenni, il dibattito sullo Stato sociale si è fatto sempre più complesso, così come sempre più complesse e variegate sono diventate le società moderne.
Oggi il dibattito sul welfare è sempre più appannaggio degli addetti ai lavori e si è frantumato in spacchettature minuziose e capillari che poco hanno a che spartire con lo spirito originario: questo purtroppo ne ha minato la capacità di penetrare in settori ampi della popolazione, che si trovano esclusi da ogni supporto.
Rileggere Beveridge 78 anni dopo stupisce per l’estrema attualità delle sue argomentazioni: di fatto, potrebbe essere molto utile per ripensare alla protezione sociale in uno stato, quello italiano, che sembra aver abbandonato i suoi cittadini bisognosi al loro destino.
Per il testo completo della relazione Beveridge, clicca qui.